Ciao Maestro.

Consumatosi questo lungo, quasi interminabile giorno di sconcerto universale per la scomparsa di Andrea Camilleri, ricordo la gioia di aver  pubblicato nell’autunno del 2013,  per  www.caratteriliberi.eu

questo piccolo contributo in collaborazione con la professoressa Miriam Mirolla e l’ufficio stampa di Charelettere su un lungimirante e luminoso saggio del Maestro che da poche ore ci ha lasciato.

 

Condividere questa recensione riferita ad un libro, forse meno noto e popolare fra la sua vasta produzione letteraria, certamente importante nel profilo politico dell’autore, mi emoziona oltre modo.

 

 

 

 

 

 

Come la penso, note utili per la nostra memoria.

 

“Finchè un mattino, dopo un violentissimo acquazzone, apparve in cielo un gigantesco arcobaleno che coprì l’intero paese. Il rosso di quell’arcobaleno non era solamente un colore, ma un altissimo grido di rivolta, deciso e terso. Quell’arcobaleno segnò. Sempre a furor di popolo, la fine del Cavaliere”.

 

Come tutti gli epiloghi fiabeschi, la chiosa consueta garantirebbe la vita per tutti “…felici e contenti…”. Si dà il caso che l’ultimo capoverso della parodia con le note sopra citate, sia titolato “Favola vera”. Un ossimoro che desta curioso interesse anche nel più pigro o svogliato lettore, confermando l’estro letterario dell’autore.

Se iniziassimo la lettura proprio dal finale, potremmo, manco a dirlo, ampliare se non debellare, definitivamente, le schiere dei “lealisti” (ultimamente vistosamente decimatesi) di uno degli inevitabili protagonisti della scena politica e culturale (per usare un eufemismo…) del nostro sovra discusso ultimo ventennio italiano.

Era tutto scontato? – Un finale già scritto da quell’orda forcaiola di toghe rosse, aizzata dall’indomabile e mai estinta claque mangia bambini del sottoproletariato comunista?

Tutti pronti a calare il pollice al cenno del giovane Cassio, emergente cortigiano, pronto a rovesciare le sorti avanzate nella pletora imbalsamata di ottuagenari faccendieri, e quant’altro?

L’ennesimo memoriale narrato da un altro vecchio parolaio, reduce dell’armata rossa del secolo scorso, pronto a infierire sulla cariatide malata e truffaldina, finalmente stanato e messo alla pubblica gogna?

Riferirsi in questi termini (come peraltro già probabile, non solo nella scia dei “lealisti” di cui sopra) al saggio di Andrea Camilleri, “Come la penso”, dato alle stampe da CHIARELETTERE la scorsa primavera, sarebbe non solo banale quanto surreale.

 

Il sottotitolo di copertina, (alcune cose che ho dentro la testa) già svela la cifra del testo, ponendolo in uno scaffale preferito e pregiato, di facile e necessario accesso, nella libreria dei posteri. Un unicum nella produzione letteraria dell’autore siciliano, sorta di memorandum promemoria per l’Italiano che sarà.

Quello contemporaneo non ne esce bene nello scorrere dei testi e documenti che compongono la raccolta di racconti e riflessioni. Probabilmente non è ancora compiuta la sua gestazione, intesa come cittadino di un moderno Stato unitario.

Il filo rosso che lega i vari saggi, articoli e lezioni (lectio magistralis) in vari atenei italiani, disegna la crescita storico culturale di una giovane Italia avulsa dalla concezione unitaria, diversamente radicata negli altri stati europei.

Con un percorso emozionale che attraverso l’incontro con gli autorevoli colleghi letterati del Novecento (risalta la grande umiltà nel confrontarsi con i Robert Capa, Ruggero Jacobbi, Carlo Lizzani,Leonardo Sciascia per citarne solo alcuni), Camilleri sdogana il velleitario imprimatur sulla cultura come presidio esclusivo della sinistra. 

 

Non più in grado di coagulare le istanze degli eredi (figli e nipoti) di quella vasta classe operaia, cresciuta politicamente nel solco berlingueriano e formatasi alla scuola del pensiero pasoliniano.

Così, emblematica appare la consegna del suo lavoro, quasi l’affido pro manibus del suo testamento programmatico. Il Maestro Camilleri, come da copione improvvisato a braccio, avvolto dalle immancabili spire fumanti da sigaretta, sedeva  al divano come alla sedia del regista, lo scorso cinque giugno presso l’Accademia della Bella Arti di Roma.

Nel terzo dei Seincontri, (il ciclo di seminari su arte e letteratura, organizzato dalla professoressa Miriam Mirolla – teoria della percezione e psicologia della forma, Università Sapienza di Roma) non risparmiò strali agli attori di questa fiction per niente entusiasmante rappresentata dalla diciassettesima (aihmè la cabala ndr) nuova legislatura repubblicana, avviata lo scorso 15 marzo che partorì la fiducia per l’anomalo esecutivo nazionale in carica.

Le scuse per aver dato fiducia al PD sono il sarcastico incipit di una dolorosa gattopardesca constatazione che non risparmia la stabilizzante disponibilità del suo coetaneo (sottoposto anagraficamente al comune “sfaldamento cerebrale”) presidente della Repubblica.

 

Intercettata in questi giorni al telefono, ho chiesto alla  professoressa Mirolla: cosa Le rimane scolpita principalmente di quella presentazione con Andrea Camilleri presso l’Accademia delle Belle Arti a Roma ? Ecco il suo ricordo:

“Sono rimasta impressa soprattutto dalla lucidità artistica e politica di Camilleri, dalla sua capacità di analisi e di assunzione di responsabilità. Camilleri, nella lunga conversazione all’Accademia di Belle Arti di Roma, ha intrapreso con il pubblico un percorso di consapevolezza sulle questioni che riguardano la gestione e la governabilità del nostro Paese oggi, dal recente suicidio della sinistra alle spericolate manovre istituzionali del nostro Presidente della Repubblica. Il pubblico ha compreso, anche grazie a Camilleri, che oggi non ci si può sottrarre da un impegno civile “tema per tema”, senza mai trascurare uno sguardo “da artista” sulla realtà che sia acuto, fulminante, iconico, cioè basato sulle immagini. E infatti il suo libro si apre proprio con una folgorazione visiva, una vera e propria illuminazione avuta mentre attendeva timidamente di rivolgere la parola al maestro Alberto Savinio. Era il 1949, in una splendida giornata romana che aiutava a superare i dolori della guerra, quando il giovanissimo Camilleri si domandava:

“…Ma che c’era in quel cielo che lui vedeva e io no? Prima di rientrare, alzai la testa. E mi accorsi con stupore che nel cielo c’era qualcosa di nuovo, per dirla con Pascoli. O meglio: di primo acchito, non c’era niente di sostanzialmente nuovo, ma era come se al cielo avessero dato, in pochi secondi, una nuova mano di colore. L’azzurro era più intenso, a tratti virava al blu. Era questo mutamento che stava osservando Savinio? E dire che fino a quel momento il cielo di Roma m’era parso assai simile a quello della mia Sicilia. E invece no, non lo era, dalle mie parti quando il cielo piglia un colore così resta a lungo non svaria più o meno percettibilmente in tempi rapidi. Gli occhi di Savinio m’avevano messo sull’avviso.”

Questo secondo me non è solo un aneddoto. Saper “vedere il cielo” non è soltanto un fatto percettivo o una forma di attenzione poetica, ma un modo complesso di vedere tutto il mondo, e quindi un emblematico condensato di personalità. Con Camilleri in Accademia abbiamo riscoperto una storia dell’arte fatta di incontri, di affetti, eventi reali e piccole rivoluzioni psichiche capaci di cambiare il corso della nostra storia personale e collettiva. Quindi, per rispondere alla Sua domanda, Camilleri mi ha insegnato che ogni giorno dobbiamo alzare la testa, e “vedere” nuovamente il cielo.”

 

( fonte: http://caratteriliberi.eu/2013/10/14/cultura-e-societa/camilleri-la-penso-note-utili-la-memoria/ )

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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