Pepito Pignatelli. L’iconografia del Jazz nella variante romana della Dolce Vita. Un’accurata retrospettiva nell’accattivante memoriale di Marco Molendini.

“Pepito non sta nella pelle. Combatte quotidianamente con creditori spesso appostati sotto casa e passa le giornate a inventare espedienti, allenato dal padre alla disinvoltura nell’arte di sopravvivere. “Me so’ pure venduto per tre volte i mobili dell’appartamento arredato che avevo in affitto”, racconta senza falsi pudori. Non può credere che l’amico rifiuti ostinatamente un’occasione come il viaggio negli Stati Uniti. “Romano, ma che stai a dì. Quelli c’è coprono d’oro. Ma chette frega”, prova a convincerlo.”

Lo stralcio narrativo arricchito dall’efficace vulgata romanesca è una delle innumerevoli chicche: vicende e aneddoti che impreziosiscono un saggio storico italiano del secolo breve. Insuperabile nelle trasformazioni dei costumi, delle nuove tendenze culturali d’oltreoceano. All’indomani della grande guerra mondiale degli anni Quaranta.  

Soprattutto il prezioso lavoro realizzato da Marco Molendini è un affresco denso di sentimenti, visioni e personaggi che spiegano in un’adeguata e affascinante versione l’avvento del Jazz in Italia.

Pepito il principe del Jazz è il titolo del libro scritto da uno dei migliori critici musicali viventi, già prima firma al Messaggero di Roma. Edito per i caratteri di Minimum fax, il saggio, presente in libreria da poche settimane, è già un caso editoriale.

Il titolo, così come i trentuno paragrafi (corredati da una sontuosa appendice ipertestuale che include: una playlist, pregiata colonna sonora, sottofondo ideale per i contenuti narrati; titoli di coda al pari di un vero e proprio kolossal cinematografico; un dettagliato indice dei nomi comprensivo di tutti i coprotagonisti e i sinceri ringraziamenti ai colleghi e amici, coinvolti nel progetto), che compongono l’opera, converge sulla vita, breve quanto borderline, di Pepito Pignatelli.

Un personaggio leggendario dai contorni epici, la cui fama non è stata coerente alla valenza culturale impressa dal corso della sua esperienza terrena.  

Spesa in un turbinio euforico nell’importare nel cuore del takeoff economico italiano, orizzonti musicali ignoti. Provenienti dalle nuove emergenze americane.

La voce narrante è dello stesso scrittore.

Contemporaneo, amico fraterno di Pignatelli. Testimone oculare in un’epoca straordinaria. Riconosciuta in quella “Dolce Vita”, mirabilmente interpretata da Marcello Mastroianni, nell’omonima celebre pellicola diretta da Federico Fellini. Premiata nel 1960 con la Palma d’Oro a Cannes. 

Immagino sia giusto lasciare al lettore, nello scorrere le pagine, il gusto di conoscere o ricordare quest’originale protagonista.

Provvisto di una lista di titoli nobiliari lunghissima e appariscente.

Straordinario catalizzatore di un movimento musicale, il Jazz. Originato dal be-bop americano imperante nei Quaranta. 

Merito non banale di Molendini, l’aver ricostruito vicende reali, non edulcorate, di uno stupefacente campione. Dagli stili di vita non propriamente borghesi nè politicamente corretti, per usare un eufemismo.

Marco Molendini Immagine tratta dal suo profilo Facebook

Le sue gesta, alla conquista quotidiana di nuove ribalte musicali, non conoscevano alcun freno inibitorio. La propensione a eccedere nella ricerca sfrenata di palinsesti stellari senza alcun limite di spesa, unita al millantato credito di un’improbabile autonomia finanziaria, esponeva il mecenate a uno stabile profilo d’inaffidabile squattrinato. Capace comunque di rimediare, da provvidenziali Cavalieri Bianchi (anche fra le più alte gerarchie ecclesiastiche), le coperture necessarie ai reiterati dissesti finanziari. Un tragicomico archetipo dove la narrazione cruda e ilare di Molendini lo avvicina in alcuni stati a un altro Principe della risata.

Quell’Antonio De Curtis, in arte Totò. Impegnato sui set cinematografici in analoghe esilaranti riprese di quelle realizzate nella realtà dal Principe del Jazz.

Comportamenti unanimi. Esalati dai fiumi di alcol e devastati dagli abusi delle polveri bianche. Tipici, in un’ampia comunità di musicisti e sodali. Puniti anche con il carcere.  Sanzioni comminate, talvolta anche con eccesso nelle iniziative restrittive, da un sistema socio politico decisamente conservatore. Permeato dal riverbero proibizionista e post fascista. Corroborato dalle influenze ecclesiastiche d’oltre Tevere.

Poco inclini alle aperture avanguardiste, propedeutiche alla ventata sessantottina. Già manifesta negli standard ribelli dei bopper a stelle e strisce.  

L’onestà intellettuale esercitata da Molendini nella stesura del testo, risalta anche nel racconto dei suoi primi passi al lavoro del cronista.

Facilitato dall’intervento dell’onnipresente Pepito. Iperattivo in tutte le occasioni utili al proselitismo del suo amato Jazz. Pronto a referenziare il giovane Marco, presso l’editore Giuliano Salvadori del Prato, avvocato aristocratico vicino a Nino Rovelli

“Poi eccolo alzare il telefono e chiedere alla segretaria, Rossana Moretti, una ragazza bionda e simpatica che dopo qualche anno avrebbe sposato Lelio Luttazzi: “Mi chiami per favore il maestro Gianfilippo De Rossi“.

La sua euforica dipendenza per il Jazz, la smania di portare a Roma i più grandi nomi (impossibile menzionarne anche solo una parte, rimandiamo alla già citata appendice finale), realizzò l’apertura, (con gestioni d’esercizio insostenibili), di due storici Jazz Club: prima il Blue Note a via dei Cappellari, poi il leggendario Music Inn.

Quest’ultimo ricavato da una sorta di grotta, locata dai frati in Largo Fiorentini e inaugurato nel 1974. 

Veri e propri templi per una generazione di talenti italiani che si alternarono in “religiosi pellegrinaggi di formazione”. Impressionante quando non commovente la schiera di esordienti (dell’epoca) pronti ad accompagnare i Charles Mingus, Chet Baker, TonyScott.  Una commistione di (divenuti)grandi musicisti italiani, alcuni intimi di Pignatelli, come Marcello Melis

(https://www.laltraribalta.it/2019/02/12/jazz-e-dintorni-la-sardegna-miniera-di-talenti-e-risorse-inesplorate/) .

Fra i talentuosi stagisti esordienti al Music Inn, i due giovani prodigi in erba, rispettivamente al piano, Danilo Rea e alla tromba, Paolo Fresu.

Quest’ultimo, nella sua grande umiltà, paragonò le sue ospitate nell’underground capitolino con la stessa emozione di una esibizione alla Scala di Milano.

L’incrocio virtuoso con altre esperienze nate dal basso grazie all’estro proletario dipreziosi talenti (https://www.laltraribalta.it/2021/12/16/la-musica-come-bene-comune-dialogare-col-jazz-nella-scuola-di-bruno-tommaso/)

Sullo sfondo lo struggente amore di Picchi Gallarati, la moglie che fu al fianco di Pepito sin da ragazza sino al suo ultimo respiro. Consumatosi a soli quarantanove anni.

Pepito. Il principe del Jazz. Seconda di copertina. Fonte : profilo Facebook dell’autore.

Una lettura veloce e ammaliante per il lettore. Con la consapevole ratio per l’autore, di aver riprodotto in un compendio fluido e affascinante, una stagione bella e irripetibile 

Rileggeremo questo piccolo grande capolavoro, aspettando magari una nuova visitazione cinematografica di questa inimitabile storia italiana.

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