La genealogia del volersi bene. Quello che so di te. Un vibrante diario di famiglia nell’ultimo romanzo di Nadia Terranova.

«Mi muovo maldestra e intrusa nel matrimonio di Venera, ma dovrei essere a mio agio almeno nel mio. Invece no. Il fastidio di nominare i soldi s’infiltra nella voce, i soldi sono spine nel costato di ogni relazione.»

La citazione stralciata da una esplorazione intimista, è frutto di una ricerca più ampia e complessa. Un percorso personale di approfondimenti sulle conoscenze delle vite trascorse di familiari, protagonisti di eventi privati e personali diviene condivisione pubblica.

Materia prima e carne viva per un romanzo. Per alcuni versi più un saggio. Forse i catalogatori editoriali o i  recensori, quelli seri, potrebbero applicare ulteriori disgressioni sulle classificazioni di genere: un romanzo storico, di formazione, autobiografico, autofiction. Si  potrebbe evocare il neorealismo. Ipotizzando una non improbabile futura sceneggiatura cinematografica.

Non è un tema dirimente. Certamente non lo è per chi scrive queste note. Rispetto ad una opera letteraria – con la serena convinzione di un corretto uso di questa espressione – che al pari di un eccellente libro, lascia il lettore con sapori e umori insaziabili alla prima lettura.

L’inclusione nella cinquina dei titoli che fra pochi giorni si contenderanno la vittoria alla settantanovesima edizione del Premio Strega non è proprio casuale. Circostanza peraltro che si ripete dopo il piazzamento dell’autrice nello stesso roster per l’edizione 2019 con Addio fantasmi per i tipi di Einaudi.  

Quello che so di te, in libreria dallo scorso quattordici gennaio per i caratteri di Guanda Editore è l’ultimo libro scritto da Nadia Terranova.    

«Un appunto in rosso, a destra della prima pagina del faldone, dice che Venera è la centotreesima donna internata nel 1928. Delle altre centodue entrate da gennaio a giugno potrei sapere tutto ciò che gli incendi e l’incuria dell’archivio hanno risparmiato – spero che ciascuna di loro abbia generato per sangue, affetti o affiliazione una persona che oggi ne ascolti il richiamo.» 

Il passaggio tratto dalla pagina 135 inquadra l’evento clou della protagonista, intorno alla quale si dipana una matassa di luoghi, eventi, personaggi. Alcuni ne rappresentano vincoli affettivi primari per la stessa autrice. Voce narrante nell’intera vicenda.    

Che muove i primi passi salienti con la consapevolezza dell’avvenuta maternità, nella stanza d’ospedale condivisa con la sua piccola creatura. Da poche ore venuta al mondo.  

«…meno male che qualcuno si è messo a districare il filo matrilineare della nostra famiglia…»

Alla pagina 248, vicino all’epilogo del percorso narrativo, nei pensieri di un dialogo avviato con la sua madre, è svelata l’azione che ha ispirato la stessa voce narrante nel delicato lavoro di ricerca introspettiva. Una faticosa verifica in un viaggio a ritroso nel tempo. Segnato in un itinerario impervio dai tratti talvolta dolorosi. Con la visitazione di un arco temporale di tre generazioni fra la sua maternità e quella della bisnonna Venera. Ricoverata per undici giorni presso l’ex ospedale psichiatrico Lorenzo Mandalari, situato a Messina.

 «Il dna mitocondriale si eredita per via materna: i mitocondri esistono solo nelle cellule complete, non ci sono quindi negli spermatozooi. La scienza usa questo dna per raggiungere le origini più remote degli esseri umani preferendolo al dna del nucleo cellulare per motivi pratici: in quest’ultimo ci sono ben ventitremila geni; mei mitocondri, invece, è concentrata una quantità molto meno dispersiva, un numero preciso di geni tramandabili solo attraverso le gravidanze, di madre in figlia e così via. Con i figli maschi e con le donne che non si riproducono, l’eredità si interrompe.»

La pagina 138 esprime l’approccio scientifico intrapreso dalla neomamma. Che innesta in una narrazione possente, densa di umana fragilità, elementi di lucida indagine clinica. Supportata dalle consulenze degli addetti ai lavori. Luminari nell’oscurità delle patologie psichiatriche. Anche in questo particolare albo professionale, l’empatia umana coniugata alle competenze scientifiche fa la differenza. E’ il caso del “Professionista Umano”–  in rari e misurati casi , neppure per i legami di sangue, la scrittrice ricorre ai nomi di battesimo dei personaggi in campo – capace di chiarire in battute essenziali questioni divisive per decenni di studi. Talvolta celati nella sfera della neuroiatria.

Termini reietti e urticanti ai più. Che proprio per l’istinto di allontanarne il coinvolgimento, ne hanno favorito inconsapevolmente, nel corso del Novecento, l’abuso di pratiche dolorose quanto pericolose come la terapia elettroconvulsivante.           

Terranova palesa l’esigenza di un legittimo bisogno di sentirsi idonea all’inedito ruolo materno. Inconsciamente messo in discussione da quel buco nero ammantato di mistero nel quale era precipitato la bisnonna. Circondata dagli affetti più vicini – dall’apparente poco affidabile marito ad un numero indefinito di sorelle, figli e discendenti vari – riconosciuti in un intercalare tormentone: «la Mitologia Familiare.» Una fonte sorgiva dove l’acqua delle notizie tramandate nelle generazioni di famiglia risulta torbida. Non potabile per soddisfare la sete della neomamma. Per conoscere una Verità, evidentemente manipolata.

«Tra le sedie dei manicomi e quelle dei nostri salotti ci sono più somiglianze di quante vorrei notarne.»

 Un ponte temporale di circa un secolo separa gli undici giorni di ricovero di Venera nella struttura siciliana, dalle giornate solitarie della neomamma. Decisa nell’analisi di quel genogramma misto di legami di sangue e di una maternità consapevole. Che matura nella salita di un mondo. Già alle spalle.

Dove il distacco da una stagione di mancanze ed errori è segnato dal dissidio aspro e quotidiano dei genitori. Nell’età spensierata dell’adolescenza dove nuove «domande create apposta per paralizzarci, vicoli ciechi che ci portano al collasso performativo» non possono sedimentare ulteriori frustrazioni.

 L’elaborazione delle assenze, dei silenzi possono aprire nuove strade grazie a quel cerchio narrativo che si chiude con un’apertura alle forme della vita. I ringraziamenti dell’autrice nelle ultime pagine di questo testo immaginifico, illuminano l’intera prosa di Nadia Terranova.

Nata in una terra fertile del Sud Italiano nel 1978, sembra continuare virtuose decostruzioni del disincanto avviate già da vicini autorevoli pensatori della generazione precedente.

Rileggere alcune pagine di questo libro con il sottofondo musicale di Edoardo Bennato che nel 1971 canta: «Il vuoto e poi. Ti svegli e c’è. Un mondo intero. Intorno a te. E se fai domande. Chi ti risponde. Ti dice “è presto”. Quando sarai grande. Allora saprai tutto.» –

aiuta a non temere le cadute accidentali di Venera.   

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