Cinquant’anni dopo il sessantotto, le analisi di Paolo Pombeni.

L’anniversario da nozze d’oro con il tempo trascorso da quel fatidico anno non poteva passare inosservato agli occhi più arguti della cultura nazionale. A Sassari ad esempio l’associazione musicale dell’Orchestra Jazz di Sardegna per celebrare la consueta festa europea della musica nel solstizio d’estate, ha realizzato un progetto dedicato dal titolo eloquente: “Make Music not War – Rockestra”, un’ambientazione meticcia tra rock, funk e organici tipici del jazz per rileggere  classici rock e funk maturati sul finire dei Sessanta, scritti dai gruppi storici anglo sassoni nati e prolificatisi negli anni della contestazione mondiale.

Approfondire i cambiamenti culturali segnati dallo spartiacque simbolico del sessantotto, ha prodotto nei dieci lustri trascorsi un dibattito che si è aggiornato in un’evoluzione non sempre coerente agli slanci originari.

“Se e quando riuscissero in questa impresa, le nuove generazioni potrebbero guardare con indulgenza e forse con qualche considerazione a quanto è accaduto dal Sessantotto a oggi, riconoscendo che effettivamente quello non era che l’inizio.”

Le note su citate chiudono il saggio di Paolo Pombeni “Che cosa resta del 68” disponibile in libreria dall’inizio di quest’anno per i caratteri delle edizioni

Il Mulino. Un assioma che più che chiudere un’attenta indagine, apre una serie di successivi approfondimenti per il lettore. Attento a discernere un ragionamento neutro e quanto più oggettivo possibile. Sensibile a sdoganare residue evanescenze ideologiche, il lavoro dell’autore bolzanino, già ordinario in più corsi di Storia presso l’Università di Bologna, non compie una mera visitazione storica e geopolitica dell’epoca. I nove capitoli che suddividono le centoventotto pagine producono alcune risposte in contro tendenza o semplicemente diverse rispetto ai canonici filoni sviluppatisi sino ad oggi. Presentati spesso con semplificazioni di comodo, utili a un’area politica, quella di sinistra, gradualmente evaporata proprio per una crescente distanza dalle attese originarie di quella stagione.

L’autore del libro, direttore della testata “mente politica”, ricordando il quadro politico mondiale di riferimento post bellico, restringendo l’obiettivo nella realtà italiana, evidenzia nei giusti pesi specifici, ruoli e ricadute di strutture e agenzie politiche sociali primarie.

La diarchia politica culturale consumata fra Politica e Chiesa occupa spazi importanti nelle scelte distinte da una radicale discontinuità nei costumi antecedenti lo sviluppo urbano e industriale dei cittadini italiani. Un cambiamento eloquente declinato nell’innovazione radicale d’intendere il ruolo della donna con le inedite scelte, mai immaginate prima, rispetto all’introduzione normativa del divorzio prima e dell’aborto poi.

Su queste prerogative Pombeni non rinnega quelle scelte ne emette giudizi su tutta una serie di dinamiche ben circoscritte con efficacia sintesi. Con rigorosa mira intercetta una serie di evidenti approcci ipocriti su più di un valore emerso in quel pullulare di associazioni e movimenti. Luoghi dove pulsioni convergenti (sindacalismo, azione studentesca, lavoratori – termine che divenne sinonimo di attivista extra partitico – da “potere operaio” a “lotta continua”, gli esempi più noti), degenerarono in operazioni strumentali e stereotipi fini a se stessi. Ovvero a gruppi elitari capaci di monopolizzare le leve di comando delle classi dirigenti e avocare ai propri fini di bottega une rivendicazione intellettuale velleitaria e autoreferenziale. La pratica del familismo emerge come l’elemento peggiore dei “cattivi maestri” sino a colludere con gli atteggiamenti omertosi o paramafiosi, condanna all’occhiello che l’universo etico e civile deplora.

Non si evince una lettura di “sfascio morale”, neppure si prospetta l’anticamera del populismo imperante che verrà. Anche l’evoluzione di un certo linguaggio, adottato in alcune narrazioni di comodo è un segnale importante da non trascurare.

Ciò che rimane di questo straordinario viaggio storico costituisce un passaggio importante per i giovani di questa società contemporanea. E’ pur vero che una quota importante deriva dal quel meccanismo perverso e pervasivo che in Italia ha bloccato il cosiddetto “ascensore sociale”, riducendo più che altrove lo scambio paritario interclassista di opportunità nelle affermazioni sociali e individuali. Proprio per questo quei contenuti vanno studiati, ripresi, rivalutati.

 

( fonte : http://caratteriliberi.eu/2018/07/08/recensione-libri/15399/  )

         

 

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